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venerdì 16 dicembre 2016

Avvento #16



Excalibur - Il Re d'Inverno, B. Cornwell

Eravamo una delegazione assai pittoresca. Gli uomini di re Tewdric portavano l'uniforme romana e il mantello rosso, mentre Artù aveva equipaggiato i suoi guerrieri con mantelli verdi. Viaggiavamo sotto quattro bandiere: il drago di Mordred, l'orso di Artù, la volpe di Gundleus e il toro di Tewdric.
A fianco di Gundleus c'era Ladwys, unica donna del nostro gruppo. Era di nuovo allegra e il suo uomo pareva lieto di averla con sè. Il re di Siluria era ancora prigioniero, ma portava la spada e cavalcava al posto d'onore accanto ad Artù e Tewdric. Quest'ultimo lo guardava ancora con sospetto, ma Artù lo trattava come un vecchio amico. Gundleus, del resto, era una pedina del suo piano per pacificare la Britannia, in modo da potersi dedicare alla lotta contro i sassoni.
Ai margini del regno di Powys fummo accolti da una guardia d'onore. Sulla strada vennero stese delle stuoie e un bardo ci cantò la storia della vittoria di Artù contro i sassoni, nella valle del Cavallo Bianco. Re Gorfyddyd non era venuto ad accoglierci, ma aveva inviato come proprio rappresentante Leodegan, l'ex re di Henis Wyren che si era rifugiato alla corte di Powys. Leodegan era stato scelto per il suo rango, ma come persona era notoriamente una testa vuota. Era un uomo straordinariamente alto, molto magro, con un collo lunghissimo, capelli scuri e ricci, e la bocca sempre aperta. Non riusciva a stare fermo: muoveva i piedi, alzava le braccia di scatto, batteva gli occhi e si grattava la testa.
 

giovedì 15 dicembre 2016

Avvento #15



L'ultimo castello, J. Vance


La Mostra dei Tabarri dell'Antiquariato, una sfilata annuale di Phane abbigliate in abiti sontuosi, si teneva nella Grande Rotonda a Nord della piazza centrale. Quasi la metà dei Cavalieri, ma meno di un quarto delle Dame, possedeva delle Phane.
Erano queste creature native delle grotte della luna di Albireo Sette, molto docili, festose e affettuose, le quali, dopo diverse centinaia di anni di incroci, erano diventate delle silfidi dalla bellezza prorompente. Avvolte da una garza delicata prodotta dai pori che avevano dietro le orecchie, e che scendeva lungo le braccia e dietro la schiena, erano le più inoffensive delle creature, sempre preoccupate di piacere e candidamente frivole.
Gran parte dei Cavalieri le trattava con affetto, ma ogni tanto si sentiva parlare di qualche Dama che aveva immerso una Phane particolarmente detestata nella tintura d'ammoniaca, che le macchiava la pelle e distruggeva la sua garza per sempre.
Un Nobile infatuato di una Phane suscitava ilarità. La Phane, sebbene venisse allevata con tale cura da sembrare una delicata fanciulla, se usata sessualmente si sciupava e dimagriva, e la sua garza si scoloriva e, anche se tutti lo sapevano, diversi gentiluomini avevano fatto un cattivo uso delle loro Phane.

mercoledì 14 dicembre 2016

Avvento #14



Legami di luce, V. Nazarian (in La giustizia delle Spade, a cura di M.Z.Bradley)

 

Arirante cavalcava uno stallone color dell'argento. Le bardature erano d'oro e pelle pregiata, dal collo dell'animale pendevano gocce di opale e topazio. La donna non indossava orpelli, solo una veste da guerriero nera e grigia. Alla mano destra aveva un unico anello di metallo, e lo indossava soltanto perché portava il sigillo imperiale. I capelli erano fermati da un cerchietto di pallida seta, pettinati in tre trecce lunghe sino alla vita: una per il Sud, una per il Nord e una per l'Est. La treccia dell'Ovest non la poteva aggiungere ancora.
Dietro Arirante venivano i guerrieri della sua scorta. era un corteo di diecimila uomini e riempiva la strada fino all'orizzonte orientale.
Alle porte della grande Città dell'Ovest furono accolti da lanci di petali di rosa e polvere d'ambra. Il giovane imperatore dell'Ovest in persona li attendeva e quando Arirante si chinò dalla grande altezza del dorso del suo stallone per afferrare quelle mani pallide e delicate, il suo sguardo vivo incrociò il remoto crepuscolo di quello di lui. Poi, quando l'ebbe di fronte, altrettanto alta e forte, Erester sollevò le proprie mani - più fini dell'avorio più puro che Arirante avesse mai visto - e con un gesto semplice le mise al collo una ghirlanda di fiori bianchi. Da quella ghirlanda scaturì una luce che danzò un istante con sublime follia, e quando la sfiorò la donna fu percorsa da un brivido. Da quel momento Arirante, che non aveva mai amato prima, amò, senza sapere perché, quell'uomo dagli occhi di crepuscolo che non poteva eppure doveva essere suo marito.
 

martedì 13 dicembre 2016

Avvento #13



L'ultimo cavaliere, Terry Brooks

 

La piccola compagnia proveniente da Arborlon partì poco dopo l'alba del mattino seguente, diretta a nordovest verso le alte cime che circondavano il passo di Aphalion. Scesero dal promontorio e tornarono nel bassopiano dei laghi di Eldemere che Panterra e Prue avevano percorso per raggiungere gli Elfi, piegando a nord per attraversare l'ultimo tratto degli stagni. Il tempo era cambiato durante la notte: le nubi erano riapparse sulla valle, il cielo era coperto, la luce era grigia e l'aria velata dalla foschia. Quando si misero in marcia, la nebbia cominciava a salire e presto i loro vestiti si coprirono di goccioline che scintillavano come piccole pietre preziose.
Panterra Qu respirava a pieni polmoni l'aria pulita e dolce delle prime ore del mattino, profumata di terra umida e di vegetali che mandavano un intenso odore di nuove linfe. Aveva la mente lucida, ben riposata dopo una buona notte di sonno; era eccitato dalla prospettiva di esplorare il passo ed era incoraggiato dal successo di Phryne Amarantyne con il re. La ragazza camminava accanto a lui, ora; la sua faccia sottile era illuminata dall'impazienza e i suoi occhi guizzavano da un particolare all'altro, attenti a tutto. Procedeva senza compiere movimenti inutili, con un passo cadenzato che mostrava come fosse abituata ai lunghi percorsi e sapesse come conservare le energie. Panterra aveva apprezzato il modo in cui si era rifiutata di farsi aiutare con lo zaino, insistendo per portarlo da sola. Phryne aveva anche messo in chiaro che avrebbe svolto la sua parte di lavoro, avrebbe fatto i turni di guardia se fosse stato necessario e avrebbe preferito essere chiamata per nome piuttosto che con il suo titolo reale. Aveva anche avvertito che al ritorno si sarebbe presentata con loro dal padre per comunicargli le informazioni eventualmente trovate, buone o cattive che fossero.

lunedì 12 dicembre 2016

Avvento #12



Intervista col Vampiro, Anne Rice

"Bene, notai che il cimitero era pieno di nuove sepolture, alcune con croci di legno, altre semplici tumuli di terra con dei fiori ancora freschi; alcuni contadini tenevano in mano dei fiori, come se volessero adornare queste tombe; ma tutti quanti erano come impietriti, con gli occhi fissi su due individui che tenevano per le briglie un cavallo bianco - e che cavallo! Scalciava e scalpitava e scartava da un lato, come se avesse in odio quel luogo; uno splendido animale, però, uno stallone, tutto bianco. Be', a un certo punto - e non potrei dirvi come si siano messi d'accordo, perché nessuno di loro disse una parola - uno, il capo, penso, gli diede un colpo tremendo col manico d'una pala, e il cavallo partì all'impazzata su per la collina. Ve lo potete immaginare. Io pensavo che non l'avremmo più visto, almeno per un po'. Ma mi sbagliavo. Dopo un minuto rallentò e incominciò a girare intorno alle vecchie tombe, poi scese giù per la collina verso quelle nuove. E tutti rimasero immobili a guardarlo. Nessuno emise un suono. Ed ecco che tornò trottando sopra i tumuli, attraverso i fiori, e nessuno fece un movimento per afferrare le briglie. Poi all'improvviso si fermò, sopra una tomba."
Si asciugò gli occhi, ma non avevano quasi più lacrime. Sembrava incantato dalla propria storia, come lo ero io.
"Ed ecco cosa accadde" continuò. "L'animale restò lì fermo e a un tratto un grido si levò dalla folla. No, non era un grido, era come se tutti quanti ansimassero e gemessero, poi tornò il silenzio generale. E il cavallo era sempre fermo e scuoteva la testa; allora il capo si fece avanti, chiamando a gran voce molti altri; una delle donne lanciò un urlo e si gettò sulla tomba quasi sotto gli zoccoli del cavallo. Mi avvicinai più che potei. Vidi la pietra col nome del morto: era una giovane donna, morta solo da sei mesi, le date erano incise, e lì c'era quella donna sventurata inginocchiata sul terriccio, che ora abbracciava la pietra come per strapparla dalla terra. E la gente cercava di tirarla su e portarla via."


domenica 11 dicembre 2016

Avvento #11


Il castello d'acciaio, L. Sprague de Camp e H. Pratt

 

La luna di quel mondo, osservò Shea, tramontava solo dodici o tredici minuti più tardi ogni sera, invece dei cinquanta della sua terra. Egli e i suoi quattro compagni erano stesi a terra ai margini della radura, dove sorgeva il castello invisibile di Busrane. Non intendevano avvicinarsi fino a che la luna non fosse tramontata.
Mentre attraversavano lo spazio aperto, Shea bisbigliò: - Temo di non riuscire a trovare il cancello. Troppo buio per scorgere i miei segni di riferimento.
- Piccolo inconveniente - rispose Cambina. Shea vide che faceva dei vaghi segni con la sua bacchetta. Dal nulla apparve una debole fosforescenza che poi divenne una fila di sbarre.
Cambina puntò la bacchetta, che si allungò e si fletté come un verme addomesticato. La punta si attaccò alla serratura e vi scivolò silenziosamente dentro. Ci fu un leggero clic.
La bacchetta si ritrasse, poi si infilò tra le sbarre. Al suono notturno degli insetti si mescolò un debole cigolio: il catenaccio scivolò via e il cancello si aprì.
Mentre entravano in punta di piedi, il leggerissimo tintinnio dell'armatura pareva, alle orecchie di Shea, il passaggio del terremoto in una fabbrica di padelle. Cambina indicò qualcosa. In alto, sul muro, c'era una sentinella, di cui si vedevano solo il mantello e il cappuccio, appena visibili e debolmente fosforescenti. Il cappuccio si voltò con la sua nera cavità verso di loro. Cambina sollevò la bacchetta e immobilizzò la sentinella in quella posizione.
Luce e musica si riversavano dalle finestre del salone. Shea, in testa al gruppo perché conosceva il posto e perché aveva il passo silenzioso, stava dirigendosi verso la porta quando inciampò in un'immensa gamba pelosa.
 

sabato 10 dicembre 2016

Avvento #10



NessunDove, Neil Gaiman


Il Gran Salone era ingombro di candele. C'erano candele accanto ai piloni di ferro che sostenevano il soffitto; candele in attesa vicino alla cascatella che scendeva da un muro e nel piccolo stagno scavato nella roccia sottostante; candele raggruppate ai lati del muro di roccia; candele ammassate sul pavimento; c'erano candele nei candelabri che facevano ala alla grande porta tra due neri piloni di ferro. La porta era realizzata con liscia silice nera inserita in una base d'argento che si era scurita con il passare dei secoli, diventando quasi nera anch'essa. Le candele erano spente, ma al passaggio dell'alta figura guizzanti fiammelle prendevano vita.Nessuna mano le aveva toccate, nessun fuoco aveva sfiorato i loro stoppini.
L'abito della figura era semplice e bianco; o più che bianco. Un colore, o un'assenza di colore, così luminoso da far trasalire. Aveva i piedi nudi sul freddo pavimento di roccia del Gran Salone. Il viso era pallido, saggio e gentile; e, forse, un po' malinconico.
Era molto bello.
E in un attimo, tutte le candele del Salone erano accese. Si arrestò presso lo stagno nella roccia; si inginocchiò vicino all'acqua, mise le mani a coppa, le tuffò nel liquido cristallino e bevve. L'acqua era molto fredda, ma anche molto pura. Terminato di bere chiuse gli occhi per un istante, quasi stesse benedicendo. Quindi si alzò e se ne andò per dove era venuto, attraversando il Salone; e quando passava le candele si spegnevano, come avevano fatto per decine di migliaia di anni. Non aveva ali, eppure era senza alcun dubbio un angelo.
Islington lasciò il Gran Salone, anche l'ultima candela si spense e tornò il buio.

venerdì 9 dicembre 2016

Avvento #9



Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, J. K. Rowling

 

-Lumos- mormorò Harry, e una luce abbagliante apparve sulla punta della bacchetta. La tenne alta sopra la testa, e l'intonaco incrostato di ghiaino del numero 2 all'improvviso prese a brillare; la porta del garage scintillò e Harry scorse distintamente il vasto profilo di qualcosa di molto grosso, dagli enormi occhi lucenti...
Harry fece un passo indietro, inciampò nel baule e cadde. La bacchetta gli sfuggì di mano mentre Harry allungava un braccio per attutire la caduta. Il ragazzo atterrò bruscamente nel canaletto di scolo...
Si udì un BANG assordante e Harry alzò le mani per ripararsi da un'improvvisa luce accecante...
Con un grido, rotolò sul marciapedi, apena in tempo. Un attimo dopo, un gigantesco paio di ruote sovrastate da due enormi fanali frenava bruscamente a pochi centimetri da lui.
Come Harry potè constatare, il tutto apparteneva a un autobus a tre piani di un viola intenso, appasro dal nulla. Le lettere d'oro sul parabrezza dicevano: Il Nottetempo.
 

giovedì 8 dicembre 2016

Avvento #8



La mano sinistra delle tenebre, Ursula K. Le Guin

 

Circa duecento anni fa nel Focolare di Shath alla frontiera di Pering c'erano due fratelli che si erano scambiati la promessa solenne di un reciproco kemmeri. In quei giorni, come ancora oggi, a due fratelli era permesso il reciproco kemmer fino a quando uno di essi non desse alla luce un figlio, ma dpo questo essi dovevano separarsi; così non era mai permeso loro di giurarsi il kemmer, ed essere kemmeri, per la vita intera. Eppure essi avevano fatto proprio questo.
Quando venne concepito un figlio, il Lord di Shath comandò loro di rompere il loro voto, e di non incontrarsi mai più in kemmer. Nell'udire questo comando uno dei due, colui che portava il bambino, disperò e non volle ascoltare conforto o consiglio, e procuratosi del veleno, si uccise.
Allora il popolo del Focolare si sollevò contro l'altro fratello e lo scacciò dal Focolare e dal Dominio, gettando sopra di lui la vergogna del suicidio. E poiché il suo stesso Lord lo aveva esiliato, e la sua storia lo precedeva, nessuno volle accettarlo, ma dopo i tre giorni di ospitalità tutti lo scacciavano dalle loro porte, come un fuorilegge. E così egli andò di luogo in luogo, fino a quando non vide che non era rimasta cortesia per lui nella sua terra, e il suo delitto non sarebbe stato perdonato.

 

mercoledì 7 dicembre 2016

Avvento #7


Lo Specchio dei Sogni, Stephen R. Donaldson

 

La storia di Terisa e Geraden iniziò pressappoco come nelle favole. Lei era una principessa chiusa in un'alta torre. Lui era l'eroe venuto a salvarla. Lei era l'unica figlia di un uomo ricco e potente. Lui era il settimo figlio del signore della Settima Marca. Lei era incantevole, dalla cima dei capelli neri che le facevano da corona sulla testa alla punta dei piedini dalla pelle bianchissima. Lui era bello e coraggioso. Lei era prigioniera di un incantesimo. Lui non conosceva la paura e, quanto agli incantesimi, era abituato a spezzarli.
Come in tutte le favole, erano fatti l'uno per l'altra.
Purtroppo, la loro vita non era semplice come nelle favole.
Per esempio, l'alta torre di Terisa era un grattacielo newyorkese di appartamenti di lusso, sulla Madison, a pochi isolati dal parco. C'erano due camere da letto - una delle quali era una "stanza degli ospiti", arredata da cima a fondo e mai utilizzata - un ampio soggiorno con un'impressionante vista a ponente, e poi una seconda camera da pranzo con un lungo tavolo di legno nero, lucido come uno specchio (che avrebbe fatto un figurone alla luce delle candele, se Terisa avesse avuto qualche motivo per accenderle) e il tipo di cucina con i mobili di linea moderna, immacolata, che fanno bella mostra di sè nei dèpliant degli arredatori.
Per l'appartamento, il padre di Terisa aveva speso quella che le persone presso cui lavorava la figlia avrebbero definito "una piccola fortuna", ma non ne rimpiangeva neppure un centesimo. Le guardie giurate che sorvegliavano l'ingresso al piano terreno e la televisione a circuito chiuso che controllava chi saliva sull'ascensore assicuravano a Terisa la massima tranquillità; e finché la figlia se ne fosse rimasta laggiù, lui non se la sarebbe trovata davanti, a girare passivamente per la casa, a fissare lui e i suoi amici con occhi grandi e castani, da vitello, che sembravano troppo inerti o troppo stupidi per capire davvero quello che lui vi leggeva dentro: la coscienza di non essere amata, che trasformava tutti i suoi doni e le sue attenzioni in un modo elegante per non occuparsi di lei. Perciò, il padre era stato felice di togliersela dai piedi.
 

martedì 6 dicembre 2016

Avvento #6





Il Re deve morire, Mary Renault

 

I mari attorno a Creta sono di un blu cupo, quasi nero, vuoti, nudi e tempestosi. Nessuno da noi aveva ancora percorso mari dove non si scorge mai terra. Qui l'uomo è veramente un granello di sabbia nella mano del dio. Ma nessuno, tranne noi, ne era sbalordito. La robusta sacerdotessa stava al sole, e cuciva, i marinai lustravano la nave; i soldati si ungevano d'olio le membra nere; ed il Capitano si pettinava i riccioli, con indosso la conchiglia dell'inguine e l'elmo cesellato a fiori di giglio.
Verso sera ci trovammo la brezza in fronte: ammainarono la vela e i vogatori si curvarono ai remi. La nave smise il rollio e cominciò a beccheggiare. All'ora di cena nessuno aveva più fame, tranne Meneste. Alcuni si sforzarono di mandar giù qualcosa, ma prima del buio rigettarono. Allora ci distendemmo sulla tolda e desiderammo la morte.
"Se domani è lo stesso", pensavo, "siamo finiti." Elice si lamentava, verde come gli occhi dell'anitra. Mi sentivo il corpo appiccicoso di sudore freddo. Mi si agitò il ventre e a tentoni mi avvicinai al bordo.
Quando fui svuotato, mi guardai intorno. Cadeva la sera. Il sole, inghirlandato di porpora, affondava nel mare lustro; ad oriente occhieggiavano le prime stelle, negli squarci delle nubi. Tesi la mano a Posidone, ma non mi mandò alcun segno. Forse era via, a scuotere la terra da qualche parte. Tutto intorno a noi io sentivo un'altra potenza, oscura, incomprensibile all'uomo, che dà desolazione o gioia, che carezza o respinge, ma non sopporta domande. Due gabbiani mi passarono accanto al volo, uno dietro l'altro, con strida selvagge, quello inseguito come se gridasse di vergogna. Mi sentivo debole e gelido e mi aggrappai al parapetto per non cadere. 
 

lunedì 5 dicembre 2016

Avvento #5


La Donna del Falco, Marion Zimmer Bradley

 

Romilda non ebbe il coraggio di rallentare l'andatura finché la luna non fu tramontata; cavalcò nel buio, lasciò che il cavallo seguisse la propria strada, e alla fine allentò la briglia e gli permise di procedere al passo.
Lei stessa ignorava dove si trovasse; sapeva che quando era giunta al bivio, ai piedi della collina, non aveva preso la strada a sinistra, che l'avrebbe condotta a Nevarsin: da quella parte, per Rory sarebbe stato fin troppo semplice ritrovarla. E adesso si era perduta: per sapere la direzione in cui si stava muovendo, avrebbe dovuto aspettare il sorgere del sole, che le avrebbe permesso di orientarsi.
Trovò una piccola macchia di alberi che offrivano riparo, tolse la sella al cavallo e legò l'animale a uno dei tronchi, poi si avvolse nel mantello e nella rozza coperta che aveva afferrato durante la fuga, e si infilò in una piccola cavità ai piedi dell'albero. Aveva freddo ed era indolenzita, ma riuscì a dormire, anche se continuò ad agitarsi nel sonno a causa di incubi in cui un uomo senza volto che era per metà Rory e per metà il Nobile Garris - no, assomigliava anche a suo padre - le si accostava con lentezza inesorabile... e lei non riusciva a muovere neppure un dito.
Di una cosa era certa, nel sogno: se Rory l'avesse avuta nuovamente a tiro, lei avrebbe fatto meglio a tenere pronto il pugnale. Ma qualcuno glielo aveva gettato nel pozzo della latrina, e lei non poteva cercarlo perché era vestita soltanto dei suoi stracci sporchi di sangue, e, per chissà quale motivo, nel prato dove suo padre teneva il mercato dei cavalli si stava proprio allora danzando per la festa del raccolto...
Fu destata dal cavallo, che sbuffava e la spingeva con il muso; il sole era alto e il ghiaccio sui rami si stava sciogliendo. 
 

#sonotuttestorie - PLPL 2016

#sonotuttestorie 
 
La mia è questa: dopo 14 anni da assidua frequentatrice, sarò presente (mercoledì 7 di persona, negli altri giorni sullo scaffale in ottima compagnia) con Il Duca di ferro a #piùlibripiùliberi
 
Grandissima emozione e tanta stima per Francesca Costantino che in pochissimo tempo è riuscita a creare questa squadra e a mettere in campo tanti libri bellissimi. 
 
http://www.astroedizioni.it/catalogo-libri/fantasy-romance/duca-ferro-the-iron-duke/
 
#astroedizioni vi aspetta allo stand T65. Parola d'ordine: #astrochilegge!

domenica 4 dicembre 2016

Avvento #4





Polgara la Maga, D. e L. Eddings

Prima che nostro padre ritornasse dalla sua missione in Mallorea, Beldaran era quasi esclusivamente mia. Ma poi le cose cambiarono. Ora i suoi pensieri, che un tempo dedicava solo a me, andavano spesso a quel vecchio furfante fradicio di birra, e io me la prendevo tremendamente.
Una sera, parlando nel linguaggio tutto nostro, osservò: «Non potresti almeno pettinarti, Pol?­­» Era ossessionata dall’ordine, e la mia indifferenza verso l’aspetto esteriore la disturbava parecchio.
«A che pro? È solo una perdita di tempo.»
«Hai un aspetto tremendo.»
«Chi se ne importa?»
«A me importa. Siediti, che ti do una sistemata.»
E così, divenne una specie di rituale che si ripeteva quasi ogni sera, e ammetto che mi rendeva felice, perché mentre Beldaran si dava da fare con i miei capelli concentrava tutta la sua attenzione su di me, invece di rimuginare su nostro padre.
In un modo tutto particolare, il risentimento ha plasmato l’intera mia esistenza. Ogni volta che lo sguardo di Beldaran si faceva cupo e distante, sapevo che stava pensando a lui, e non sopportavo la separazione implicita in tutto ciò. Forse è per questo che ho cominciato a camminare molto presto: dovevo sottrarmi alla malinconia di quello sguardo.
Questo mandò fuori di testa zio Beldin. Aveva messo un cancelletto alla sommità delle scale, ma non riusciva a escogitare una chiusura che io non fossi capace di aprire quando ero presa dalla smania di uscire. Avevo (e ho ancora, suppongo) una natura indipendente e non accetto ordini da nessuno.

sabato 3 dicembre 2016

Avvento #3






Il Signore degli Anelli, J.R.R.Tolkien


Ad ovest dell'Eriador, tra le Montagne Nebbiose e i Monti Luhun, vivevano Uomini ed Elfi. Vi erano persino gli ultimi Numenoreani, i re degli Uomini giunti per Mare dall'Ovesturia in tempi remoti; ma poichè stavano velocemente sparendo, le terre del loro Regno del Nord erano in un pietoso stato di abbandono. Vi era quindi spazio in abbondanza, e presto si formarono le prime piccole comunità di Hobbit. Della maggior parte di queste colonie, ai tempi di Bilbo, non vi era più alcuna traccia. Una sola delle più importanti sopravviveva ancora a circa quaranta chilometri dalla Contea, a Brea e nel circostante Bosco Cet.
Fu senza dubbio a questi tempi che gli Hobbit appresero l'alfabeto dai Numenoreani, ai quali gli Elfi avevano insegnato a scrivere. Dimenticarono così tutte le lingue che avevano adoperato prima, per parlare unicamente la Lingua Corrente, il cosoiddetto Ovestron, di uso comune nelle terre dei re da Arnor a Gondor e sule coste del Mare dal Golfo di Belfalas a Luhun. Conservarono per ancora qualche termine, come i nomi dei mesi e dei giorni e gran parte dei nomi di persona.
All'incirca dalla stessa epoca cominciarono a contare gli anni, segnando così la fine delle leggende e il nascere della storia Hobbit. Fu nell'anno 1601 della Terza Era, che i due fratelli paloidi, Marcho e Blanco, partirono da Brea; e avendo ottenuto il permesso dal gran re di Fornost attraversarono il fiume Baranduin seguiti da un gran numero di Hobbit.

venerdì 2 dicembre 2016

Avvento #2





L’apprendista assassino, Robin Hobb


Perché è proibito trascrivere specifiche conoscenze di magia?
Forse perché tutti temiamo che cadano in mano a chi non è degno di usarle. Di certo è sempre esistito un sistema di apprendistato per assicurarsi che tali conoscenze magiche vengano trasmesse soltanto agli adepti che ne sono ritenuti degni. Sebbene la proibizione sembri un lodevole tentativo di proteggerci dai praticanti immeritevoli del sapere arcano, si ignora il fatto che la magia non deriva da queste conoscenze. La predisposizione a un certo tipo di magia può essere solo innata o assente. Per esempio, il talento per la magia nota come Arte è legato strettamente alle relazioni di sangue con la dinastia reale dei Lungavista, sebbene possa verificarsi anche come “tendenza spontanea” fra coloro che discendono sia dalle tribù dell’Interno che dagli Isolani. Un uomo addestrato nell’Arte è in grado di protendersi verso la mente di un altro, non importa quanto lontano, e di conoscere quello che l’altro sta pensando. Chi è potente nell’Arte può influenzare i pensieri dell’altro, o conversare con lui. È una facoltà estremamente utile per dirigere una battaglia, o raccogliere informazioni.
La tradizione popolare narra di una magia ancora più antica, ora oggetto di profondo disprezzo, nota come lo Spirito. Pochi sono disposti ad ammettere una predisposizione per lo Spirito, quindi si dice sempre che è prerogativa degli abitanti della valle vicina, o di quelli che vivono oltre le creste più lontane. Io sospetto che un tempo fosse la magia naturale di coloro che vivevano della terra come cacciatori piuttosto che come popoli sedentari, un potere utile a coloro che provavano affinità con le bestie selvagge dei boschi. Lo Spirito, così si dice, conferiva l’abilità di parlare i linguaggi degli animali. Si veniva anche ammoniti che chi praticava lo Spirito troppo a lungo o troppo bene si trasformava nell’animale al quale si era legato. Ma può essere solo una leggenda.